Cette comédie de Giacinto Andrea Cicognini, diffusée par plusieurs éditions imprimées au XVIIe siècle, dont la plupart ne sont pas datées, constitue la plus complète des versions italiennes du sujet.
Les principaux points de rencontre avec Don Juan ou le Festin de pierre sont indiqués ci-dessous :
– je n’aime pas les faiseurs de remontrances
– d’où sort cette autre paysanne
– il se mariera tant que vous voudrez
– il n’a d’autre dessein que de vous abuser
– je veux que Sganarelle se revête de mes habits
– quel est le superbe édifice que je vois entre les arbres
– demande-lui s’il veut venir souper
– la statue baisse la tête
– voilà le souper
– qui peut frapper de cette sorte ?
– chante ta chanson
– je vous invite à venir demain souper avec moi
– pas besoin de lumière
– donnez-moi la main
– mes gages, mes gages
Pour une analyse détaillée des rapports entre Don Juan ou le Festin de pierre et cette comédie, voir C. Bourqui, Les Sources de Molière, Paris, SEDES, 1999, p. 129-134.
Opera reggia et esemplare di Giac. Andrea Cicognini
In Bologna,
Personaggi
RE DI NAPOLI
PIETRO: Zio a D. Giovanni
GIOVANNI: Nipote
CORTE
PASSARINO: Servo a D. Giovanni.
DUCA OCTAVIO
FICHETTO: Servo
D. ISABELLA: Dama di Corte
COMMENDATORE OLIOLA
D. ANNA: Figlia
RE DI CASTIGLIA
ROSALBA: Pescatrice
DOTTORE
BRUNETTA: Figlia
PANTALONE: Marito a Brunetta
SBIRRI
La scena si finge prima in Napoli e poi in Castiglia
ATTO PRIMO
SCENA I
ISABELLA con D. GIOVANNI tenendolo per la mano stretto
Isabella. Non ti lascierò se credessi di perder la vita.
D. Giovanni. Lasciami dico, perfida femina.
Isabella. Voglio almen riconoscerti.
D. Giovanni. Incognito venni e non conosciuto voglio partire.
Isabella. Darò le voci al Cielo.
D. Giovanni. Volesti dire all’Inferno.
Isabella. Scopriti traditore.
D. Giovanni. Taci femina imbelle.
Isabella. Saprò, anche qual’io son, mortificarti.
D. Giovani. Lasciami in mal’hora.
Isabella. 0 là di Corte, lume. Alcun non viene?
D. Giovanni. In van chiedi soccorso. Oh Dio, ecco S. Maestà col lume.
Si ritira.
Qui senza parlare D. Isabella parte.
SCENA II
RE di Napoli, D. GIOVANNI
RE di Napoli. 0 là, qual rumore si sente nelle Reggie stanze? Una Dama qui grida? E chi tanto presume di se stesso, che anche al proprio Re perdi il rispetto?
Qui D. Giovanni con la spada gli getta il lume, e parte.
RE di Napoli. Oh Dio, e non anche fu satio il traditore di macchiar la riputatione d’una Dama nelle mie stanze, che anco di mano mi getta il lume? 0 là.
SCENA III
D. PIETRO TENORIO, RE di Napoli, D. GIOVANNI in disparte
RE di Napoli. D. Pietro sia vostra cura il ricercar il delinquente, che nelle mie stanze hora ritrovasi, qual cercò di levar l’honore ad una Dama da me sin’hora non conosciuta, e più col ferro istesso che al fianco gli pende, mi gettò di mano il lume. Intendesti, o vivo, o morto, fate che venghi nelle mie mani.
D. Pietro. Intesi mio Sire, e non mancherò di fare quel tanto, che a me si deve. E qual temerario pensiero potè giamai drizzar l’animo perverso di commetter simil delitto nelle stanze di S. Maestà. 0 là qual tu sii, o mal Cavaliero, renditi nelle mie mani, se non vuoi provare da una destra irata la morte.
D. Giovanni. Non sarà mai vero ch’io mi renda ad alcuno, se non a D. Pietro Tenorio.
D. Pietro. Se non m’inganno quest’è la voce di D. Giovanni mio Nipote.
D. Giovanni. Questo è D. Pietro mio Zio.
D. Pietro. D. Pietro per apunto io sono.
D. Giovanni. Ed io vinto a lui mi rendo.
D. Pietro. D. Giovanni Nipote?
D. Giovanni. D. Pietro? Zio
D. Pietro. E qual perversa fortuna qui ti condusse a commetter simile eccesso? Il fuggire è impossible; il fatto è palese; la tua morte è sicura.
D. Giovanni. D. Pietro non pavento il fuggire, non dispero del fatto, e non temo la morte, quando sono vicino a voi, che sete il mio sicuro porto.
D. Pietro. Ma come, se S. Maestà a viva forza ti desidera nelle sue mani?
D. Giovanni. Procurarò, mercè vostra, il fuggire.
D. Pietro. Odimi, o D. Giovanni odi dico, un Zio, che per tua cagione forma con gli occhi suoi un mar di pianto: parti da questo loco, fuggi da questa Reggia, che mercè il tuo misfatto non ti si apparecchia altro che la morte.
Vanne dentro al palazzo, e cerca di salvarti giù per quel verone, che a nan destra si ritrova, che io accompagnandoti con lettere e con danari, tu ed il servo, potrai con quello andartene in Castiglia, e così fuggendo i ri gori di S. Maestà salverai in un medesimo punto honor, e vita.
D. Giovanni. Ecco che affidato dalle vostre parole m’invio al partire.
D. Pietro. Ma fermati, D. Giovanni dimmi prima che tu parti, chi fù la Dama da te sforzata?
D. Giovanni. Fu D. Isabella….
D. Pietro. Altro non desidero, parti, che sarà mia cura rimediare al tutto.
D. Giovanni. Amato Zio mi parto.
D. Pietro. Nipote caro addio.
D. Giovanni. Sa il Cielo quanto mi duole…
D. Pietro. Sa Dio quanto mi spiace….
D. Giovanni. Il lasciar mio Zio tanto adorato.
Via.
D. Pietro. Il vederti partir Nipote amato. Ma che piango? Che mi querelo? Il pianto è scusa del codardo; non voglio mancar di parlare a D. Isabella, dimandarli se conobbe chi fu l’assalitor del suo honore, e con qualche inven tione scusar il reo. 0 là di corte, D. Isabella?
SCENA IV
D. ISABELLA e D. PIETRO
D. Isabella. Chi mi chiama? 0 sete voi D. Pietro?
D. Pietro. D. Isabella già è pervenuto all’orecchie di S. Maestà che voi questa notte assalita a viva forza da un potente nemico, sete stata violata; onde S. Maestà desideroso di sapere chi fu il reo, per poscia darli il meritato castigo, a voi inviommi. Ditemi liberamente il vostro pensiero, acciò anch’io possi dar parte a S. Maestà essendo di ciò mezano.
D. Isabella. D. Pietro, vi giuro per quella Dama honorata ch’io fui, ch’io nol conobbi.
D. Pietro. Come non lo conoscesti? Non potesti figurarlo alla voce?
D. Isabella. Ne meno a quella.
D. Pietro. Vivete voi d’alcun Cavaliero di Corte amante?
D. Isabella. 0 questo si.
D. Pietro. E di chi?
D. Isabella. Del Duca Octavio.
D. Pietro. D. Isabella?
D. Isabella. Dite D. Pietro.
D. Pietro. Io so chi fu.
D. Isabella. Voi sapete chi fu?
D. Pietro. Io si, è certo.
D. Isabella. Ditemi D. Pietro chi fu l’involator dell’honor mio?
D. Pietro. Il Duca Octavio.
D. Isabella. Altro non posso per appunto credere, ma non volle scoprirsi.
D. Pietro. Tenete per fermo che sia stato egli.
D. Isabella. Più m’accerto di lui che d’altri.
D. Pietro. Basta solo, ch’esaminata da S. Maestà gli dite queste istesse parole, che sarà poi mia cura il far che il Duca Octavio sia vostro consorte.
D. Isabella. Quando altro non desiderate, eccomi pronta.
D. Pietro. Partite e attendetemi.
D. Isabella. Parto e in voi spero.
D. Pietro. Ed io resto, e non dispero. Già il negotio va bene: quando verrà S. Maestà io chiamerò D. Isabella, e farò si che gli ratifichi il tutto. Ma eccolo appunto.
SCENA V
RE di Napoli, D. PIETRO, CORTE
RE di Napoli. E bene D. Pietro, intendesti chi fusse il traditore?
D. Pietro. Si mio Sig. e la Dama offesa potrà assicurarla maggiormente.
RE di Napoli. Chi fu, chi fu la Dama?
D. Pietro. D. Isabella.
RE di Napoli. Si chiami, ch’a me se ne venghi.
D. Pietro. Obbedisco.
RE di Napoli. Gran temerità d’un Cavaliero, perdere il rispetto ad un Re. Violar una Dama, merita la morte questo sacrilego.
SCENA VI
D. PIETRO, D. ISABELLA e RE di Napoli
D. Isabella. A piedi di quella grandezza, che merita calpestar più scettri, e corone, che non sono stelle in Cielo, e minute arene in Mare, riverente s’inchina la più infelice Dama di vostra Corte.
RE. di Napoli. Levatevi, o D. Isabella poichè non decente ch’una vostra pari stia prostrata à miei piedi; levatevi dico.
D. Isabella. I comandi della Maestà Vostra mi sono leggi inviolabili.
RE di Napoli. Ho per inteso le vostre sventure, e perciò diedi ordine a D. Pietro ch’a me ne venisti ; ditemi, conoscesti il temerario, violatore della vostra riputatione?
D. Isabella. No mio Sig. ma per quanto posso figurarmi certo nell’idea, lo stimai per il Duca Octavio.
RE di Napoli. Il Duca Octavio?
D. Isabella. Si mio Re.
RE di Napoli. E questi si può chiamare col titolo di Cavaliero? E sarà possibile ch’un temerario nemico dell’honore viva in mia Corte? D. Pietro.
D. Pietro. Sire?
RE di Napoli. Sia vostra cura il far di nuovo ogni diligenza, acciò il perfido, o vivo, o morto, sia dato nelle nostre mani; e voi, o D. Isabella, datevi pace; mentre io vi assicuro che mostrarei di non esser Re se non cercassi di farne quella vendetta, che si deve a un tanto misfatto. Venite meco in Corte.
D. Isabella. Non mi allontano da i comandi della Maestà Vostra supplicandolo a non lasciar invendicato un oltraggio tale, ricordando alla Maestà Vostra che l’honore è il più pregiato tesoro del Mondo.
RE di Napoli. Vedite pur D. Isabella, e non temete.
D. Isabella. Seguo le sue vestigia come vassalla humile.
D. Pietro. Lodato il Cielo, ecco l’inventione sorti con felice fine. D. Isabella non poteva parlar meglio con S. Maestà. Ritrovarò il Duca; sapendo ch’egli è innocente, l’avviserò de’ comandi di S. Maestà poi imponendoli il partire, farò che si salvi la sua vita. Si, si, facciasi in questa forma, entrarò in Corte, ritrovarò l’accusato a torto, e farò si che la dilatione non lo disgiunga della partenza.
SCENA VII
PASSARINO e GIOVANNI
Passarino. Una mala cosa al caminar de notte; i dis che la notte è fatta per i alochi, e mi per causa del me patron che tutt’al di e tutta la notte vol andar a… al bisogna ch’a camina; mi a non so dov’al se sia; al dirà pò che non tegn’ cont’ de lù, e mi andarò in bestia.
D. Giovanni. uest’è gente, ed è il mio servo se non m’inganno; ma sia chi che sia, chi va là?
Passarino. Nissun Signore.
D. Giovanni. Come nissuno? Da il nome, o sei morto.
Passarino. Morto? Capuzzi!
D. Giovanni. Presto, dico.
Passarino. E ch’a non ho paura de’ bei humori; chi va là?
D. Giovanni. Poni mano alla spada.
Passarino. Oimè alla ved imbroiada, eh cospetton.
Qui caccia mano alla spada, e poi si slonga in terra con la spada nuda drizzata, e D. Giovanni li tira cortellate su la spada, e poi si scoprono.
D. Giovanni. Eh traditore, ad un Prencipe mio pari cosi si tratta?
Passarino. Dai, cospetton, dai, hi, hi, hi. hi, hi.
D. Giovanni. Ancora mi buffoneggi?… Passarino?
Qui lo conosce.
Passarino. Sig. D. Giovanni
D. Giovanni. Sei tu?
Passarino. Siu’ vu?
D. Giovanni. Si bene, perché?
Passarino. Avi fatto ben a descoverzerve, perché a ieri mort’alla fé.
D. Giovanni. Ma non sapevi scoprirti?
Passarino. Mo no sapevi tegnir la spada in tal fodr vu.
D. Giovanni. Orsù lasciamo questo da parte; sai che cosa habbiamo da fare?
Passarino. Al so mi.
D. Giovanni. Che cosa?
Passarino. Se non mel desi?
D. Giovanni. Che bestia.
Passarino. Tutt’a mi patron.
D. Giovanni. Dobbiamo partire di Napoli.
Passarino. Eh a burlà Sior.
D. Giovanni. Come ch’io burlo? Ti dico da senno.
Passarino. Mo per che causa?
D. Giovanni. Per niente, per ispasso.
Passarino. Trovav’un altr’ servitor, che mi non sto più con vu.
D. Giovanni. Parla meglio Passarino, che ti mortificarò.
Passarino. 0 questa è bella, a io da far viaz per forza mi.
D. Giovanni. Stai meco, è necessario l’ubidirmi.
Passarino. Vu haveri fatt qualche minchionaria, e mi poveretto ho da patir. Uh, uh, uh.
D. Giovanni. Ma di che piangi?
Passarino. Ch’a non magnarò più macharon.
D. Giovanni. Anzi che in Castiglia vi è il bon formaggio, e bon butiro.
Passarino. Sicura?
D. Giovanni. Certo, e poi dove è D. Giovanni non temere.
Passarino. Quand partimia?
D. Giovanni. Adesso incontinente.
Passarino. Ma a non ho i stivali, mi.
D. Giovanni. Eh che andiamo in barca.
Passarino. Alla le bone rode la barca?
D. Giovanni. S’andiamo per acqua.
Passarino. Ghe sarà del vin?
D. Giovanni. Di tutto vi sarà. Vieni, che non voglio perder tempo.
Passarino. Alla pez di pez l’è mei far cosi, se mi desiva de no, al me bastonava. Orsù Napoli, s’a non te ved più con servam in la to bona gratia, e recordat ch’a t’ho volù ben. Addio, addio Napoli, ben mio.
SCENA VIII
DUCA OCTAVIO, FICHETTO vestendo il Duca
D. 0ctavio. Vieni, vieni Fichetto, e non ti paia strano poco, di casa io esco, poiche i miei affari mi sforzano a questo. Vestimi bene.
Fichetto. Mi no me dà fastidio al non uscir de casa ne de vestirve, me dà travai che a me fa sfadigar come fa un’asin, e mai vien hora de magnar.
D. 0ctavio. Come sarebbe a dire, sarò fatto qualche Camaleonte che viverò d’aria?
Fichetto. Oc’ manc’, a si ben almanc come le formighe, ch’ogni poco de magnar ve fa un’anno.
D. 0ctavio. Lascia questi discorsi, temerario, pezzo di somaro, che ti faccio più che non meriti.
Fichetto. Com’el se tratta de magnar, e de dir la verità, al va subit in colera. Al ghe vol flema.
SCENA IX
D. PIETRO, DUCA OCTAVIO, FICHETTO
D. Pietro. Udii la voce del Duca, quale discorre con Fichetto suo servo. Non voglio perder tempo, voglio dirgli ciò che comandò S. Maestà.
D. Octavio. D. Pietro?
D. Pietro. Duca Otcavio qual prospero vento qui vi conduce?
D. Octavio. Veramente un’aura fortunata qua mi spinse, facen domi incontrare nel più caro amico, nel più leale, che mai professassi di godere in questa Reggia.
Fichetto. E anca mi ghe faz una reverenza scapelado Sig. D. Pietro.
D. Pietro. Non ad altro effetto qui mi portai o Duca, che per essere nunzio infausto alle vostre felicità.
D. Octavio. Come dite D. Pietro?
D. Pietro. Ditemi ove trapassasti l’hore della trascorsa notte?
D. Octavio. Nelle mie stanze, e non in altro loco; ma perche queste dimande?
D. Pietro. Dirovvi o Duca: è pervenuto all’ orecchie di S. Maestà che voi questa nette temerariamente (scusatemi o Duca, se cosi parlo con voi) siete andato alle stanze di D.
Isabella pregandola e supplicandola a compiacervi di quella gioia, ch’è l’honore; e doppo (lei non conoscendovi) havendo fatto molte difficoltadi, la sforzasti, onde S. Maestà inviperito il cuore di rabbia e di sdegno, mi ha imposto che siate suo prigioniero
D. Octavio. Vi giuro per quella fede che sempre professai, e professo al Re mio Signore, che io non posi ne anche il piede fuori delle mie stanze, e qui il mio servo ne potrà testificare.
Fichetto. Signor si, che per tal segn la sera andò a lett mi senza cena.
D. Pietro. Dunque siete innocente?
D. Octavio. A torto sono incolpato.
D. Pietro. Per mostrarvi ch’io vi porto affetto non ordinario, voglio per isfuggire i rigori di S. Maestà che voi v’incaminate verso Castiglia, poich’è proverbio veritiero, che la lontananza ogni gran sdegno sana. Che poi sarà mia cura il placar S. Maestà. Partite dunque o Duca, e non perdete tempo, acciò non cagionasti alla vita vostra qualche rovina.
D. Octavio. Resto con tutta obligatione a D. Pietro.
D. Pietro. Ed io verso il Duca son tutto affetto.
D. Octavio. D. Pietro addio.
Via.
D. Pietro. Addio o Duca?
Via.
SCENA X
Campagna, e mare
ROSALBA per pescare cantando
Rosalba.
O che prospera
Mia felicità.
Serenissimo, e fortunato di.
Felicissima
Quando giunsi qui,
Essendo giunta
Tra l’herbe, e tra fiori,
Tra le delitie di Ninfe, e Pastori.
Basame,
Basame Momolo quanto te par.
O che felicità inestimabile è la mia: io vivo in queste campagne benché io sia Pastorella vile, con tutta con tentezza; io son venuta qui alla marina, perché voglio vedere se posso pescare qualche bel pesce grosso.
Qui si sente gridare in Mare.
Odo gente, che gridano in Mare; o poveretti, eccoli là, ohimè, tutta mi dispero; qui, qui, poverelli; qui, qui, a fè che s’accostano, venite, venite.
Qui escono dal Mare.
SCENA XI
D. GIOVANNI, PASSARINO, ROSALBA, che gli accoglie
Rosalba. Povere genti, si sarà rotto qualche Nave, ed i poverelli si sono caduti nell’acque. O, come è bello.
D. Giovanni. Comincio a respirare.
Passarino. E mi me scappa di cagare.
Rosalba. Guarda che non crepi. Sù quel giovine, sù allegramente.
D. Giovanni. Maladetta fortuna, che mi puoi fare?
Passarino. Infamissima desgratia, me puot più assassinar?
Rosalba. Parlano, parlano.
Qui D. Giovanni si leva a sedere.
D. Giovanni. E pure fra tante miserie ritrovo qualche compassionse al mio stato infelice. Addio bella Ninfa.
Rosalba. Addio quel giovine, state di buona voglia, che dove potrò io soccorrervi, non mancherò punto.
Passarino. O, o, o, o, al me torna i spiriti mancati. Mo che negotii è quest? Al me patron fuz dal Mar, e sel casca in una carogna.
D. Giovanni. Passarino?
Passarino. Signore.
D. Giovanni. Vedi che buon bocconcino.
Passarino. L’andarà in lista ancha lia.
D. Giovanni. Sai che sto bene?
Passarino. Ancha mi che non son morte.
Rosalba. Vi sentite alquanto meglio?
D. Giovanni. Si Signora. Ma chi sete voi?
Rosalba. Una rozza pastorella che quivi in questi boschi solitaria men vivo, e venendo a fortuna per pescare qui al Mare, io sentii quei gemiti che facevi in Mare, e non volli mancare di attendervi per darvi qualche soccorso.
Passarino. Compassionevole della carne humana.
Rosalba. Ma voi chi sete? L’aspetto ha del Nobile.
D. Giovanni. Io sono D. Giovanni quell’infelice Nipote di Pietro Tenorio, che sta in Corte del Re di Napoli, che abbattuto dalla fortuna, quasi restai preda del Mare.
Rosalba. Non lo diss’io? Compassiono duplicamente il vostro stato, stante che siete Prencipe di nascita. Ma datevi pace, o D. Giovanni che ove potrò soccorrervi nel mio vicino tugurio, non mancarò di fare l’impossibile possibile… Ma chi è questo ch’è con voi?
Passarino. Mi a son D. Gioannin so fradel.
Rosalba. O poveri fratelli sfortunati; dunque questo è vostro fratello.
D. Giovanni. Chi?
Rosalba. Questo.
D. Giovanni. Temerario.
Passarino. Non se po gnanca burlar.
D. Giovanni. Sentite io feci voto in Mare, se io mi salvava, di sposare una poverella; voi sete stata quella, che mi havete dato la vita, è necessario che siate ancor quella, ch’habbiate questa fortuna.
Passarino. Al n’ha pur sposade tante.
Rosalba. O me felice, o me fortunata, se sarò fatta degna di possedere un cosi pregiato tesoro.
Passarino. S’a stava un poc’ più in Mare, s’innamorava d’una Balena.
D. Giovanni. Voi sola sarete l’anima mia, voi ch’a vostra voglia disponerete dell’ arbitrio mio.
Passarino. Signor D. Giovanni cosa feù? Non vedi co l’è una Villana, e vù si un Prencip?
D. Giovanni. S’io non gli do la mano di Sposo, poss’io esser’ammazzato da un huomo, ma che sia di pietra, sai Passarino?
Passarino. Anch’ le prede, le rompe la testa.
Rosalba. Andiamo dunque mio bene, ch’io tengo due habiti, che da certi forastieri mi furono lasciati, ch’io voglio che lei si vesta, benche non sono da suo pari; nulladimeno accetti il poco per il molto, che merita.
Passarino. E fra poch’ ti farà meretrice.
D. Giovanni. Andiamo, che non vedo l’hora di stringervi nelle mie braccia.
Passarino. E mi non ved l’hora del magnar.
SCENA XII
DOTTORE, BRUNETTA, PANTALONE
Dottore. Horsù zà ch’a sen qui, al n’occor a discorrer d’altro Signor Pantalon, a v’ la vui dar, la ragazza l’è qui, ch’ la prà dir, la anca li al so pensier, cosa ch’an cred, ch’ la sluntanarà da i comand d’ so par.
Pantalone. Desi cara Brunetta, ch’el par che stè cosi malinconica adesso ch’el xè tempo de nozze; ve contenteu d’esser mia mugier? Parlè ben mio caro, visetto d’oro inzuccherao.
Brunetta. Se io sfacciatamente saltassi come si suol dire a questo negotio a piedi pari, sarei stimata più tosto vile, che onorata, e poi non sapete che dice il proverbio: chi tace conferma; io non parlo, potete bene penetrare, che io non mi tiro in dietro.
Dottore. E ch’a so mi ch’ mia fiola è di quelli che giostra volentiera in la quintana, havissi pur vù tant lanz fatt. Orsù a vui mò qsi per spass, ch’a cuntan qui dù indvinie per passar l’otii e la malinconia.
Pantalone. Si ben, si ben, che ho gusto che la Sposa diga anch’ella el suo.
Dottore. Principià vù Signor Pantalon.
Pantalone. No ella come Dottor ghe tocca.
Dottore. Os, principià la Sposa.
Brunetta. Quando cosi comandate, principio.
Pindolon pindolava
Ad un lato alla massara;
Tanto ci pindolò
Che nel buco si cazò
Cosa è?
Pantalone. Dottor, le xè sporchezze.
Dottore. Oibò.
Pantalone. Orsù mi el voio indovinar, la xè una carrozza.
Brunetta. Oibò, oibò, oibò.
Dottore. O che bestia, una carozza spendlarà. Mi adesso a dirò: savi cosa l’è? Un fachin ch’hà pers’al zuff.
Brunetta. E tacete, che non sete boni da indovinarlo. Sapete cosa è? Un mazzo di chiavi, che tiene la Massara a canto, e quando vole aprire non si mette nel buco.
Dottore. Mo l’è vera.
Pantalone. Mi non ghe haverave coiesto alle diese.
Dottore. Os a mi mo. An ho aqua, e s’ beu del’aqua; s’avess dl’aqua, a beureu dal vin. :Cosa el?
Brunetta. Io lo so: è una fonte senz’acqua.
Dottore. Oibò, oibò.
Pantalone. Mi el digo, el xè una botte de vin guasto.
Dottore. O ch’ bestia. Savi cosa l’è? L’è al munar, animal.
Brunetta. Dice il vero il Signor Padre.
Pantalone. A mi mo. Mi ho una cosa che ha cinque ali, e cinque ossi, e se non puol saltar un fosso.
Dottore. Al so mi: l’è un Falcon, nè?
Pantalone. Un Falcon, o che Dottor ignorante.
Brunetta. Sapete cosa è Signor marito; è un corno.
Pantalone. Lassa star non l’indovinar più, ch’a proposito de matrimonio ti gh’a coiesto. La xè la Nespola.
Dottore. Al dis al ver alla fè; al vleva dir mi, a n’ m’al son rcurdà. Orsù, andeu un poch’a far le noze ch’ s’stia alligrament.
Pantalone. Andemo, andemo, o ben mio.
SCENA XIII
D. GIOVANNI, PASSARINO, ROSALBA
D. Giovanni. Orsù Rosalba, non mancarà tempo di vederci, e di goderci un’altra volta.
Rosalba. Come, che dite D. Giovanni?
Passarino. Al dis ch’al vol andar a far i fatti suoi lù.
Rosalba. Ma questa non è la promessa che egli mi diede.
Passarino. S’ l’attendesse la parola a tutte le ne, al bisognaria ch’al n’havesse sposade quattro milla.
D. Giovanni. E vieni Passarino.
Rosalba. D. Giovanni, ricordatevi del giuramento.
D. Giovanni. Che giuramento? Non posso attendervi.
Qui il Zanni getta la lista.
Passarino. Guardè s’al ghe n’è qualche centinara sù sta lista, fioi.
E via.
Lei resta disperandosi.
Rosalba. Ferma, aspetta, ove vai o mio consorte? Se tu fuggi da me, io corro a morte. Ma lassa, tu ti parti, ed io qui resto abbanata e sola; tu parti dico, e via teco porti la più gran parte di me stessa, ch’è l’onore. Ferma, aspetta, ove vai o mio consorte? Se tu fuggi da me, io corro a morte.
Oh Dio, cosi fosti stato sommerso dall’onde allora quando io ti cercai salvare, se in ricompensa di tanto amore mi tradisti; ch’io vivendo qui lieta, non haverei, disperandomi, occasione di lagnarmi di me stessa, e della tua barbarie. Ma oh Dio; ferma, aspetta, ove vai o mio consorte? Se tu parti da me, io corro a morte.
Ma in vano io mi querelo, in van’io mi lagno, poiché gettando le voci all’aure, mi accresco maggiormente il mio dolore. Egli qual’aspide non m’ode, ed io despe rata lo chiamo; egli gode de’ suoi trionfi, io tradita le mie miserie piango. Ma che farò?
Misera :Rosalba, priva d’onore, abbanata dal mio Sposo? Ecco, ecco lo spirito mio che pur ti segue barbaro traditore. Ferma, aspetta, ove vai o mio consorte? Se tu fuggi da me, io corro a morte.
ATTO II
SCENA I
Castiglia
D. GIOVANNI, DUCA OCTAVIO, FICHETTO e PASSARINO
D. Giovanni. Le vostre operationi o Duca, sono tali, che invitano ogni memoria a registrarle, ogni intelletto ad ammirarle, e ogni volontà ad amarle.
D. 0ctavio. Godo sommamente, o Giovanni, di vedervi con tutta salute in Castiglia, e veramente conosco che nelle vostre operationi non havete che per compagna la fortuna e il vostro valore. E cosi noto al Mondo, ch’il Mondo istesso istupidito lo dichiara ammirando, onde io non ardisco di avantaggio lodarlo, poiché conosco che non regna in me tant’eloquenza, e è detto da saggio, chi non sa lodare a bastanza, conforme i meriti, può da se stesso stupire, e tacere.
D. Giovanni. Tralasciamo questi complimenti o Duca, poiché sono superflui, e ditemi da che giongesti in Castiglia ritrovasti alcuna innamorata?
D. 0ctavio. Si mio Signore, e di qualche consideratione.
D. Giovanni. Si potrebbe sapere per termine di nostra amicitia chi sia?
D. 0ttavio. La figlia del Commendatore Oliola, cioè D. Anna.
D. Giovanni. D’avantaggio meritate o Duca.
D. 0ctavio. Non pari a voi D. Giovanni.
D. Giovanni. Invidio le vostre fortune.
D. 0ctavio. Anzi tengo ordine di farli una serenata alle due della notte.
D.Giovanni. Di più?
D. 0ctavio. Per servirla.
D. Giovanni. Desidero un favore da voi o Duca.
D. 0ctavio. Non mancherò a chi vivo obligato.
D. Giovanni. Il vostro mantello e il cappello, perche tengo andare per far’un pero morto questa notte.
D. 0ctavio. Volontieri, eccolo.
D. Giovanni. Fra poco sarò da voi, o Duca.
Via.
D. 0ctavio. A comodo vostro.
Passarino. Fichetto, a io da far, a n’ mancarà temp d’ far quattr chiacchiar insem.
Fichetto. Si, si, va pur via, ch’a ce negotiarem pò anca nù.
D. 0ctavio. Gran sospetto mi conturba l’animo; temo di qualche male, nel dimandarmi D. :Giovanni il cappello e il ferraiolo. Ma taci o Duca, egli è Prencipe; non puol regnar in lui attioni indegne; anco il pensiero facilmente falla. Ecco S. Maestà.
SCENA II
RE DI CASTIGLIA, D. OCTAVIO, FICHETTO, COMMENDATORE
RE di Castiglia. Duca?
Fichetto. Signor a digh.
D. 0ctavio. Che mi comanda mio Re?
RE di Castiglia. Come vi piace questa Città?
D. 0ctavio. 0 mio Signore troppo mi mortifica la Maestà Vostra nel farmi queste dimande. E chi sarebbe quello che sin’ all’intimo del core non porgesse lodi a questo: è superbo luogo dove risiede la Maestà Vostra.
RE di Castiglia. Dunque restate sodisfatto della nostra Città, 0 Duca.
Qui si batte dentro.
Ma che rumore è questo? Vedete o Duca, chi sia.
D. 0ctavio. Ubbidisco la Maestà Vostra.
RE di Castiglia. Chi puol esser questo, che cosi sollecito se ne viene alle mie stanze? E ben vedesti?
D. 0ctavio. Viddi.
RE di Castiglia. Chi è?
D. 0ctavio. Il Commendatore Oliola, che subito gionto, chiede udienza alla Maestà Vostra.
RE di Castiglia. Il Commendatore venghi, venghi il nostro Atlante, sostentatore del nostro Impero.
Qui viene il Commendatore.
RE di Castiglia. O là, se gli appresti da sedere.
Commendatore. M’ inchino riverente all’ Augustissimo piede di Vostra Maestà.
RE di Castiglia. Sedete o Commendatore.
Commendatore. Anzi devo inginocchiarmi.
RE di Castiglia. La vostra humiltà partorisce in me verso di voi non ordinario affetto. Esponete la vostra ambasciata.
Commendatore. Partii da questa Città, e alla volta di Lisbona m’incaminai, fatto contro ogni mio merito ambasciatore della Maestà Vostra e poscia colà gionto, hebbi da quella Maestà, per servitio del Christianesimo 10 milla Fanti, e 5 milla Cavalli; come in questa carta vedrà la Maestà Vostra il tutto.
Li dà una Lettera.
RE di Castiglia. Come vi piace la Città di Lisbona?
Commendatore. La Città di Lisbona è cosi bella, è cosi ricca, che con giusta ragione si puol chiarnare l’ottava maraviglia del Mondo. In questa Città vi passa il fiume Tago, fiume tanto largo et insigne, che prima di giungere a liti del Mare, si dilata in nove miglia di circuito, e non è maravi glia essendo questo un fiume che circonda la più gran parte della Spagna. Vi è un porto fra due Montagne, dal qual di continuo vi giungono Barche, Carache, Navi e Vascelli d’ogni sorte, i quali a vederle formano un’altra superbissima Città. Vi sono due fortezze tanto inespu gnabili che sariano bastanti ad atterrire, ed atterrare qual si voglia poderoso inimico. Vi sono Palazzi di tant’altezza, che gareggiano alle Stelle.
Vi sono bellissime strade, fra l’altre una chiamata il Ruscio, la quale si stima il valsente di dodici milioni. Il raccontare le feste, i balli, le allegrezze, e i conviti, che mi sono stati fatti vi vor rebbe una lingua d’acciaio ed un petto di bronzo; ed alla mia partenza, come Ambasciatore di Vostra Maestà fui accompagnato da gran quantità di Soldati, fino alle con fini, che col rimbombo delle Artigliarie, il suono delle Trombe, e Tamburi, parea dall’allegrezza precipitasse il Mondo. Questo è quanto posso dire alla Maestà Vostra Ella m’impose il parlare, ed io ho detto.
RE di Castiglia. E bene dicisti. Godo in estremo di questi trionfi, di questi onori, o Commendatore, e per onorare maggior mente la vostra Casa, ditemi, havete voi figli?
Commendatore. Si gran Signore, D. Anna.
RE di Castiglia. Fra poco sarete a Corte, che del tutto vi farò capace. Pertanto entratevene in vostra Casa, e rallegrate vostra figlia.
Commendatore. Ubidisco Vostra Maestà.
Va in Casa.
RE di Castiglia. Duca.
D. 0ctavio. Mio Re.
RE di Castiglia. Seguitemi, poichè approssimandosi la notte, è necessario lo stabilimento di quanto tengo in pensiero.
D. 0ctavio. Seguo l’orme di Vostra Maestà .
SCENA III
Notte
D. GIOVANNI, PASSARINO
D. Giovanni. Già l’ora è opportuna, la notte mi favorisce, spero di entrare da D. Anna con l’inventione del cappotto e del suono; ella stimarà ch’io sia il Duca, e con questo havrò ciò che desidero.
Si suona, e D. Giovanni entra pian piano in Casa di D. Anna.
Passarino. Patron, patron, dov’ siu? Stà a veder ch’al Diavol l’ha portà via. Orsù l’è mei ch’a me ritira; sicura che lu è andà in cà; a stare sicur Bergamasc fora dell’uss.
SCENA IV
DUCA, FICHETTO fa sonare
D. Octavio. Conforme l’appuntamento fra me e D. Anna, non ho mancato. 0 là, si suoni.
Si suona.
D. Octavio. Zi, zi, zi, zi, alcuno non risponde; forsi la venuta di suo Padre serve d’impedimento alle mie delitie; ritornarò fra poco.
Fichetto. Andemo via Signor Patron, ch’i deu dormir tutt.
D. Octavio. Hai ragione, andiamo.
Via.
SCENA V
D. GIOVANNI facendo questione col Commendatore
Commendatore. Ah traditore cosi tratti?
D. Giovanni. Che traditore? Ti privarò di vita.
Fanno questione; il Commendatore cade. D. Giovanni parte.
Commendatore. Oimè, misero, non più mi reggo, son mor … to, oi.. mè, io spi…ro..
SCENA VI
D. ANNA col lume sopra il morto
D. Anna. 0 Dio, che miro? Il mio sangue atterrato, il mio genitore morto? Chi è di me più infelice e miserabile? Chi fatto oggetto della sorte ha motivi più lagrimabili? E sarà vero (oh Dio) che pur morto tu sii amato Padre? E qual perversa mano potè mai incrudelire contro di un innocente? Ed in quale scuola, o perfido (qual tu ti sii non so) apprendesti cosi barbari costumi? Qual Fiera ti diede il latte? Qual Tigre ti nudri? Ed in fine in qual’antro ricevesti l’essere, o inhumano? Va vivi pure, ben chè morto ad una infinità di contenti, Padre mio caro, chè spero anco dal Cielo veder le mie vendette. O là.
Servo. Che comanda?
D. Anna. Portate in Casa l’estinto mio Sole:
Ch’ anco io men vado in tanto
A celebrar l’esequie sue col pianto.
Lo portano dentro.
SCENA VII
DUCA, FICHETTO
D. Octavio. Allora, quando sperai nel cupo silentio della notte haver qualch’aura di pace, qualche poco di riposo, maggiormente mi trovo inquieto l’animo da non usate molestie. Voglia il Cielo, che questi miei tremori non mi additino qualche tempesta alle mie sperate delitie.
Fichetto. Voli ch’a ve diga Segnor, che anca mi tutta nott a io havù un baticor, ch’a non son mai avez averlo, e si a non so de al se nasca, a non so se per fortuna al sia amor, o fame.
D. Octavio. Tu sei su le tue balordaggini sempre. Ma ecco D. Giovanni.
SCENA VIII
D.GIOVANNI, PASSARINO, DUCA, FICHETTO
D. Giovanni. Peratemi o Duca, se troppo tardi sono stato, havendo ricevuto tant’honore da voi, a restituirvi il ferraiolo e cappello; ecco che obligato di tanto favore vi rendo infinite gratie.
D. Octavio. Eh D. Giovanni s’io potessi cosi manifestarvi i segni esterni di gratitudine, come vi consacro interni affetti di riverenza, conoscereste la servitù, che per sempre vi professai, e professo; ma veggio adesso D. Giovanni che vi nutrite più di confondermi, che di contracambiare il mio affetto con altretanto affetto.
D. Giovanni. Per ora non m’inoltro maggiormente a i discorsi, poichè urgenti negotii mi atteno, concedetemi per tanto licenza o Duca.
D. Octavio. Andate felice, e vi accompagni il Cielo.
Passarino. Che la me scusa, se V. S. non ha fatto il suo debito, contro il mio merito, ch’un’altra volta faremo peggio.
Via.
Fichetto. Che bestia, al vol far complimenti, e si a